DRACULA

di Giovanni Cugliari

Cap 1

 

Il mio Bulova d’oro era fermo alle nove e mezzo. E la lancetta dei secondi era ferma sul sette. Io stavo succhiando dalla cannuccia un succo rossastro, che mi aveva servito in un bicchiere quella che accoglieva i turisti nella villa. Era vecchia, ingobbita, i capelli mezzi bianchi e mezzi tinti, vestita come una stracciona, tanti punti neri sul viso e mi aveva anche confessato che gli era spuntata una pustola grossa e purulenta vicino alla vagina. Quando me lo confessò ebbi un piccolo sussulto perché le avevo chiesto un favore e lei come sempre aveva preferito fare di testa sua. 

Le avevo chiesto di non mandare via la mia gatta nera, Luna, quando stava nel mio studio. Sosteneva che non avesse freddo fuori in giardino o in garage ma non me la dava a bere. Mi ero informato e alcuni articoli dicevano che anche i gatti avevano freddo quando le temperature fuori erano basse. 

Mi alzai dalla sedia e andai a mettere il bicchiere vuoto nel lavandino della cucina. 

Poi presi le scale che portavano al piano terra – prima ero sotto nella taverna – e controllai che Luna, la mia adoratissima gatta avesse finito la salsiccia cruda che le avevo portato prima di scendere. Prima di rigirarsela tra i denti affilati, gli dava un colpo di naso, poi se era a piccoli pezzi la afferrava con la bocca altrimenti la teneva ferma con la zampa, le unghie che saettavano fuori come artigli, e con i denti la strappava a bocconi. Poi la masticava con una bramosia da assassina. Ogni tanto alzava il muso, i suoi occhi iniziavano a lampeggiare di verde fluorescente. Io la guardavo stando zitto. Poi il colore dei suoi occhi tornava come prima e si rimetteva a mangiare quello che aveva nella ciotola.

Luna stava sul divano, affusolata vicino al cuscino rosa. Aveva gli occhi semi chiusi. Non era scalmanata come la si può immaginare. Al di là di quando faceva pranzo, che assomigliava a una belva invece che a una gatta, il resto del tempo lo passava a dormire quando stava dentro casa. Quando stava fuori no. Quando stava in giardino la potevi vedere andare a caccia di non so bene cosa o fissare per mezz’ora di fila il muro di cinta che divideva il mio giardino dalla fabbrica che c’era subito dietro la villa. Mi chiedevo se pregasse o se invece si impalasse sui fiori che crescevano ai piedi del muro di cinta. 

Stava di fatto che era una gioia poterla vedere correre mentre esplorava il territorio. Aveva un modo tutto suo sia di stare ferma a riposare sia di muoversi su per giù per il giardino. Quando stava ferma si accovacciava su se stessa formando una gobba con la schiena, mentre quando batteva il territorio alla ricerca delle sue prede assumeva una forma allungata prima di lanciarsi nella ricerca, si stirava tutta quanta, sembrava fosse di gomma, tirava fuori le unghie, sbadigliava e poi via, andava a mietere qualche vittima. Lucertole, lumache, o quello che gli capitava a tiro. Non l’ho mai vista però farsi gioco di un passerotto per esempio. Il che non mi dispiaceva perché amo i passeri e mi si sarebbe stretto il cuore a sapere che Luna si cibasse di loro.

Recuperai gli appunti di un progetto a cui stavo lavorando da tempo, me li misi sotto braccio e con l’altro afferrai Luna per portarla via con me. Dovevo tornare al Castello dove abitavo. In realtà era un museo di cui ero Direttore, ma ad una parte di esso mi era consentito accedere e fare quello che volevo. 

Salii sulla mia Mercedes sportiva verde fluorescente e corsi verso il Castello.

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